Dalla terra al cielo (V)
E così avevano incominciato a passeggiare per una Milano caleidoscopio, lasciandosi guidare dalle luci soffuse dei lampioni, dalle scie notturne degli ultimi autobus, obbedendo a itinerari nati dalla frase di un estraneo, fermandosi nelle piazzette per baciarsi sulle panchine o guardare e attraversare i disegni del gioco del mondo, riti infantili del sassolino e del salto su un piede, per raggiungere con qualche saltello un cielo coperto da un sipario surreale. La Matta parlava delle sue amiche di Parma, degli anni dell’infanzia, di un certo Carlo, di suo padre. Si irritava ancora dopo anni per quanto le avesse fatto male che Marta non fosse andata con lei alla stazione per salutarla, per lasciarla andare con sorrisi di confidenza e abbracci di certezza verso un mondo che ai suoi occhi sembrava così inadatto a una persona insicura e arrendevole. Si commuoveva quando ripercorreva le strade che aveva attraversato con le valigie in mano e lo sguardo spaesato, persa in una città che assomigliava a un labirinto, che la sotterrava con i suoi palazzi fuori scala e sciami di persone invalicabili. Aveva lo sguardo afflitto e smarrito di un angelo caduto.
Il Matto ascoltava distratto, perso tra pensieri frivoli e sentimenti guidati da allucinazioni ricorrenti, da cause illogiche e conseguenze immaginarie. Camminava in pieno atteggiamento precario, in piena falsa tregua, la mano sinistra tratteneva e cullava la mano minuscola e delicata della Matta, la destra si allungò verso l’alto e riuscì a toccare il gomitolo Milano, la sua materia infinita, il magma dell’aria e le ditate sui vetri delle finestre, un ingranaggio di elementi che girano sui loro stessi cardini, una matassa di viali e parchi e rumori assordanti e odori salmastri. Afferrava un gomitolo in cui non c’era dentro un disordine che aprisse porte al riscatto, c’erano unicamente immondizia e povertà, calici di rosso vuoti e rotti, pantaloni e magliette sbattute negli angoli delle camere, un letto che puzzava di capelli e fragranze oscure. Ma soprattutto il Matto in quel gomitolo rinveniva e riconosceva quelle sacralità inutili che tanto lo guidavano nella ricerca di un Sacro Graal che però si allontanava sempre di più, ma per lui non era tragico inseguire qualcosa di così etereo perché ritrovava felicità e serenità nel caffè preparato nel silenzio del mattino, nell’uscire di casa e sentire il profumo di pane caldo, nella sigaretta fumata alla finestra prima di addormentarsi, nell’impressione fulminea di ascoltare dopo undici anni la voce di un padre ancora così radicato in lui, nel leggere di notte la frase Vivere una vita non è attraversare un campo.