Sproloqui metropolitani
Sei nato un venerdì di un maggio torrido, tua madre per spingerti fuori ci ha messo un giorno intero, tuo padre ha tagliato il cordone ombelicale poi è svenuto.
Sei cresciuto al mare, in una casa grande che confinava con la spiaggia, a volte le onde raggiungevano il muretto di casa che ti piaceva scavalcare fingendo fosse il confine tra la terra e il cielo. Sei cresciuto in una casa spaziosa, con due genitori assenti ma amorevoli a modo loro, tuo padre lo vedevi solo alcune sere quando riusciva a tornare presto dal lavoro e durante i fine settimana passati tra la spiaggia e la televisione. Tua madre ti veniva a prendere a scuola, cucinava, ti aiutava a fare i compiti, ti metteva a letto, ma con la mente era da un’altra parte. Te ne sei accorto a dieci anni, quando l’hai trovata sul divano con gli occhi aperti e la bava che le scendeva sul golfino. Hai pensato che stesse sognando qualcosa di bellissimo e l’hai lasciata dormire ancora un po’. Solo qualche giorno dopo, quando persone vestite di nero ti stringevano la mano e ti accarezzavano il viso, hai capito che quegli occhi non li avrebbe più sbattuti e che invece di dormire era già da un’altra parte, ma sicuramente non più lì con te. E pensa che ora il tuo essere stato premuroso con tua madre è il ricordo più bello che custodisci.
Tuo padre ha fatto il possibile per crescerti nella normalità: ha cambiato lavoro per stare con te, lavorava di notte e ti portava a scuola prima di andare a dormire e venire a riprenderti sei ore dopo, ti ha portato allo stadio per la prima volta, ti ha comprato la tua prima macchina, ti ha pagato il tuo primo anno di università prima che iniziassi a lavorare per non pesare più sulla sua coscienza, ma anche lui è morto non riuscendo mai a dirti il bene che ti voleva e tu sei crollato di nuovo e sei scappato lontano.
Quando a cinquant’anni ti sei chiesto il perché tu sia finito a vent’anni su una barca e non sia sceso per trent’anni ti sei risposto che non avevi più voglia di soffrire, e ti sei fatto cullare da quel mare che tanto ti aveva fatto compagnia da piccolo. Neanche tu credevi alla tua risposta perché sapevi benissimo di averlo fatto perché non hai avuto la forza di affrontarti, di affrontare la mancanza e il dolore. Sei sceso saltuariamente per mettere i piedi sotto qualcosa, ma la terra ogni volta che tornavi ti respingeva e tu eri quasi felice di allontanarti, di rifiutarla e scappare cercando di andare ancora più lontano.
Quando a ottant’anni ti sei chiesto il perché tu sia rimasto solo per tutta la vita non ti sei neanche risposto, sapevi che lo avevi fatto perché essere nessuno era più facile di essere qualcuno, qualcuno con un vuoto incolmabile, con l’incapacità di vivere insieme a qualcun altro. L’ultima volta che hai visto il mare lo hai salutato come se stessi lasciando un pezzo di te, hai salutato tua madre come se fosse in quelle acque ad aspettarti, hai salutato tuo padre come se non se ne fosse mai andato.
Sei morto nel letto di uno squallido motel, avevi la faccia triste, triste come tutta la tua vita, ma la tua bocca accennava uno strano sorriso, forse contenta di andarsene. L’ultima immagine che hai visto prima di morire è tua madre che ti spinge sull’altalena, ti spinge in maniera delicata, accompagnandoti per il primo pezzo e poi lasciandoti andare verso il mondo, per poi riprenderti cullandoti fino al prossimo lancio. Ti sussurrava parole dolci, cercava di baciarti sulla guancia.
Chissà perché avevi la strana abitudine di guardare male chi ti sorrideva. Ti dava fastidio che ti mostrassero i denti, le fossette, le labbra che cambiavano colore allargandosi verso i confini della bocca. Un’altra cosa che non sopportavi erano le persone che si davano appuntamenti e soprattutto quelli che poi arrivavano prima dell’orario prestabilito. Li odiavi perché: concordare un appuntamento significava attribuite importanza a qualcosa e secondo te le cose importanti della vita si contavano sulle dita di una sola mano, arrivare addirittura in anticipo significava prendere troppo sul serio la questione e secondo te le cose da prendere sul serio della vita si contavano forse sulle dita di due o tre mani.
Mi viene da ridere se penso a quella volta che qualcuno ti ha sorriso e poi ti ha salutato dandoti appuntamento per il giorno dopo. Sei riuscito a tirargli un solo pugno sotto lo zigomo prima che uno sconosciuto ti fermasse. Pensa se nessuno ti avesse fermato, avresti preso qualcosa in più di una denuncia per aggressione, non ti viene da ridere a pensare che saresti potuto finire in prigione per una stronzata del genere?
Ma sei sempre stato cosi, fatto cosi male, cosi strano, cosi asimmetrico. Non sei mai andato d’accordo con nessuno. Hai pochi amici, e quei pochi che hai ti sopportano a malapena. Pensa uscire con uno a cui piace scatenare risse, sentire le nocche delle mani rotte, sbronzarsi al punto di sentire il cranio scoppiare. L’unica spiegazione logica e razionale è che hai avuto proprio un’infanzia di merda, una madre che ti molestava, o un padre violento, o uno zio a cui piaceva toccarti.
Non hai mai sopportato niente nella tua vita, sei una molla sempre tirata e costretta a tornare indietro, a compensare uno squilibrio, come se fossi obbligato a restituire sempre qualcosa e poi a riprendertelo come se ti fosse stato tolto. La tua stupidità è direttamente proporzionale alla tua incoerenza. Di te non si conosce niente, a ognuno hai raccontato una versione diversa della tua storia. Per qualcuno sei figlio di un immigrato arrivato qui attraversando l’Europa a piedi, per qualcuno sei il figlio illegittimo di un capo massonico che ti ha venduto a una famiglia sterile, per qualcun altro sei il figlio di due zingari che ha vissuto in un piccolo camion per tutta la vita finché non sei scappato, per qualcun altro ancora sei un miliardario che ha rinunciato a tutto per essere un umile francescano.
Il fatto è che non sei nessuno e sei incazzato con il mondo intero, e il bello è che pretendi pure che il mondo ti ascolti, che incassi i tuoi colpi, che ti chieda scusa per tutto quello che ti ha fatto passare. È troppo facile pensare che il mondo ti deva qualcosa, che tu sia l’unico con un debito da farsi ripagare con gli interessi. È troppo facile prendertela con chi ti sorride, con chi fissa appuntamenti solo perché lì dentro ci vedi la felicità che non hai mai raggiunto, la stabilità che non hai mai percepito.
Se sei così tanto triste e incazzato allora vattene, costruisciti una casa in montagna e murati dentro, sparisci, o ammazzati, basta che fai qualcosa e non resti appeso e immobile di fronte al tuo passato, ai tuoi errori, alle scelte che hai fatto, a quelle che non hai fatto. Basta, svegliati.